Questa volta abbiamo avuto la fortuna di fare una bella chiacchierata con Enrico Colombini: protagonista della prima ondata di informatica e di videogame arrivata in Italia, ha saputo toccare con le sue avventure testuali alcune delle vette più alte del genere.
Ancora oggi attivo in molti settori ci ha permesso di condividere uno sguardo su quella che è l'industria videoludica italiana da parte di qualcuno che in tutti questi anni può dire con cognizione di causa "io c'ero"; pertanto lo ringraziamo davvero in maniera speciale per questa intervista, portata avanti dalla coppia TheRuler & Tsam e attraverso la quale abbiamo potuto toccare diversi aspetti di quella che è la nostra passione. Buona lettura!
Tsam e Rullo: Enrico Colombini, chi è, da dove viene e dove va?
Enrico: Chiedo scusa al buon vecchio Fermat, ma la risposta è troppo lunga per stare nel margine di questo testo. Diciamo che mi piace viaggiare con la mente e che in questi tempi di conformismo, monocultura ideologica e appiattimento generale la cosa diventa sempre più difficile.
Poi, se uno vuole pescare a caso dalla mia storia e incasellarmi come progettista elettronico, articolista, programmatore, enciclopedista, bradipo, buffone, giocatore o semplice curioso, faccia pure: so che c'è chi non riesce a vivere tranquillo se non classifica con precisione farfalle, francobolli e persone: non voglio essere io a creargli problemi.
T e R: Ci puoi raccontare il tuo primo approccio al mondo del videogioco? Quando hai deciso: voglio farne parte?
E: Non ho mai percepito il gioco su computer come troppo diverso dal gioco in sé, direi che è stato un passaggio graduale dai giochi da tavolo a quelli su PC. Direi anche dai flipper ai videogiochi da bar... se non fosse che preferisco ancora i flipper!
Se proprio devo mettere una data all'interesse specifico verso i giochi per computer, direi che l'abbuffata di giochi Apple II nel 1980-81 potrebbe essere stata uno stimolo significativo all'idea di farne di miei... ma in realtà avevo iniziato da diversi anni, con le prime calcolatrici programmabili HP: micro-giochi in cui si scriveva un numero, si leggeva il risultato e lo si riportava su un foglio di carta.
T e R: Parlando un po' della tua esperienza, quale pensi il tuo programma meglio riuscito (non solo sul computer ma anche nella vita reale)?
E: Dal punto di vista della programmazione in senso lato, quindi anche organizzativo, alcuni dei corsi che realizzai con Jackson Libri richiesero parecchio impegno.
Per uno in particolare ("PC Subito"), oltre a progettare e scrivere il contenuto, preparai un interprete di ipertesti grafici ("Igloo", sul modello di Hypercard per chi conosce il Mac) realizzandolo quasi "on the metal": driver video, librerie di interfaccia utente e interprete (il tutto sotto DOS) e infine scrissi la sceneggiatura per la parte interattiva; un lavoraccio, ma alla fine il risultato fu parecchio soddisfacente.
Del precedente periodo elettronico ricordo volentieri diversi lavori 'significativi': uno dei più curiosi fu una macchina per il collaudo dei circuiti stampati (le piastre su cui si montano poi i componenti elettronici) progettata in venti minuti nel minibus del cliente che ci portava dalla fiera al ristorante: un paio di migliaia di circuiti integrati comandati da un singolo 6502 (il microprocessore dell'Apple II e del Commodore 64, per intenderci) con un algoritmo metà in software e metà in hardware.
Non ci guadagnai gran che, ma fu una grande soddisfazione quando il cliente ci riferì che andava al quadruplo della velocità rispetto alla blasonata (e ben più costosa) concorrente proposta da una notissima azienda nazionale.
T e R: Sembra che Avventura nel Castello sia l'avventura che più facilmente richiama alla memoria il tuo nome. Fermo restando che si tratta di un pezzo di storia e di fatto di un'opera notevole, soffre anche lei del solito problema degli artisti che vengono legati indissolubilmente ad una loro opera, pur detestandola (come Baglioni-piccolo grande amore)?
E: Sì e no. No, perché non la detesto affatto, anzi mi sta simpatica. Sì perché sono un eterno esploratore e non mi piace restare confinato in territori già ampiamente conosciuti.
Ma al momento il terreno non mi pare essere particolarmente fertile per gli esploratori solitari. Queste cose sono comunque assai strane e soggette a imprevedibili vagarie, come ha dimostrato poco fa la subitanea celebrità assunta dalla sera alla mattina dalla "Ballata del programmatore" (pubblicata sul mio sito anni fa) dopo che due ottimi musicisti (Marco Di Francesco e Domenico Agostino) l'hanno arrangiata e cantata. Chissà, fra vent'anni potrei essere conosciuto soprattutto per un appunto della spesa scarabocchiato sul retro di un biglietto usato della linea 11...
T e R: Ti abbiamo chiesto quello che ritieni essere il tuo miglior programma; se parliamo invece di avventure testuali, dove vedi il tuo capolavoro? Sul tuo sito citi Apprendista Stregone come la tua preferita, c'è qualche ragione particolare?
E: Le sono affezionato anche perché sono soddisfatto dell'immersione nell'ambiente, che ho cercato di curare nei dettagli (nei limiti dello scarso tempo che avevo a disposizione per finirla in tempo per la pubblicazione del volume).
Ad esempio, alcuni incantesimi posso essere usati nei posti più impensati: ciò non ha effetto sul gioco, ma ritengo che per il giocatore la cosa più importante non sia 'vincere', ma divertirsi. Quindi va premiato anche quando 'sbaglia'.
Mi piacciono anche il tipo di enigmi e il (voluto) disorientamento iniziale del giocatore, che deve pian piano scoprire che non si tratta della solita avventura del tipo "apri la porta" e "uccidi il drago".
T e R: Nell'ambito della tua formazione narrativa e comunicativa, chi puoi citare come tuo mentore o fonte d'ispirazione?
E: Oh beh, la lista sarebbe molto lunga: potremmo metterci gran parte di un'antologia di letteratura italiana, un certo numero di scrittori contemporanei, diversi classici e moderni inglesi e francesi, senza trascurare naturalmente i fumetti (specie quelli degli anni '60-'70), i cartoni animati... e ovviamente i giochi.
Puntare il dito a caso e indicarne qualcuno sarebbe un imbroglio: ha contato più Calvino o Tintin? Ariosto o Jacobs? Verne o Pratchett? Poe o Pennac? Impossibile dirlo.
Un'influenza d'altro genere, abbastanza curiosa da meritare una citazione, è quella dei libretti di istruzioni delle antiche scatole di esperimenti "Kosmos" con cui giocavo da piccolo: erano molto ben fatti e credo abbiano contribuito a insegnarmi l'arte dell'illustrazione di concetti complessi con parole semplici, il contrario della vuota ampollosità formale che da noi è tanto popolare.
T e R: Enrico Colombini: sogni nel cassetto? Vorrei chiederti sia di oggi, che di ieri (magari per vedere se si sono realizzati).
E: Quelli di ieri no, non si sono realizzati. Da piccolo sognavo di "fare lo scienziato" senza avere bene in mente cosa ciò volesse dire in realtà: sognavo il personaggio romantico del ricercatore che sfida l'ignoto e l'impossibile, ma certo non immaginavo il tran tran quotidiano di un ambiente accademico fortemente conservatore o, peggio, della ricerca venduta ai peggiori interessi commerciali o militari. Per un certo periodo, molti anni dopo, sono stato deluso dal non aver trovato una porta d'ingresso nella robotica, ma la delusione si è in parte trasformata in sollievo quando ho visto l'uso principale che ne è stato fatto. In generale, osservare la tecnologia applicata a scopi di potere e di controllo, nel disprezzo di qualsiasi ideale, mi ha consentito di osservarla con un salutare distacco. Oggi... non saprei. Al momento di obiettivi per cui valga la pena di sognare non ne vedo molti. Probabilmente la mia eta' non mi consentirà di aspettare che passi il medioevo ad alta tecnologia in cui siamo immersi fino al collo, ma sto ugualmente seduto sulla riva del fiume: non si sa mai.
T e R: Quanto ti trovi davanti alla programmazione di un gioco o di un programma che tipo di approccio utilizzi? che meccanismi entrano in gioco? Immagino che sia difficile sintetizzare il processo creativo, ma ci piacerebbe provare a entrare nella tua mente e carpirne qualche segreto...?
E: È molto semplice: è come prendere i pezzi di un puzzle, buttarli in un sacchetto e agitare finché il puzzle non va a posto da solo. In pratica ragiono parecchio sul problema e sulle possibili strade per affrontarlo (esaminando contemporaneamente i vari livelli), saltellando allegramente tra diversi aspetti e provando punti di vista anche radicalmente differenti. Quando mi sono fatto un modello mentale sufficientemente completo... ci dormo sopra: le soluzioni arriveranno per conto loro, con calma. Il mio subconscio è molto più intelligente di me e non ho alcuna intenzione di fargli concorrenza. Poi parto a costruire dal basso (bottom-up): sempre prima le fondamenta, naturalmente con un'idea a questo punto abbastanza precisa di cosa ci andrà costruito sopra. Spesso esploro strade alternative, talvolta butto via tutto e ricomincio daccapo.
T e R: C'è chi pensa che in un videogioco la componente da enfatizzare sia la grafica o l'intelligenza artificiale a scapito di altri elementi. Raramente escono giochi con un background e una storia particolarmente curati, e spesso ottengono un riscontro del pubblico che non è molto lusinghiero. Secondo Enrico Colombini, alla luce della tua esperienza, dov'è la giusta via? Quale elemento risulta fondamentale?
E: Per me la grafica non è mai l'elemento fondamentale di un gioco. Se c'è dev'essere ben curata, intendiamoci; ma con questo non intendo che debba essere ad altissima risoluzione: trovo perfettamente inutile l'attuale corsa agli armamenti in cui ciascuno cerca di avere qualche centinaio di migliaia di poligoni più dell'altro, perché lo scopo della grafica in un gioco (salvo rari casi) non è la simulazione, è l'evocazione. Una grafica anche a bassissima risoluzione, anche poco o nulla animata ma ben fatta, può valere più di una grafica da video HD in cui si vedono i difetti dei foruncoli, perché alla fine il gioco non sta nel video: sta nella mente del giocatore. E questo viene troppo spesso dimenticato. Il lato oscuro di questa ridicola corsa all'ultimo dettaglio visivo è che la grafica estrema ha costi estremi, e per farla si sottraggono investimenti al gioco, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. E per giunta si richiedono risorse hardware crescenti, riducendo il numero dei potenziali giocatori.
Detto questo, va comunque riconosciuto che ci sono diverse categorie di giocatori e che, come in commercio o in politica, andare incontro ai gusti della maggioranza (o, peggio, dei recensori) non significa andare verso una migliore qualità. Dobbiamo purtroppo constatare che nei videogiochi l'epoca dell'innovazione è finita da un pezzo... o forse, speriamo, è in ibernazione in attesa di circostanze più adatte.
Un'ultima considerazione: non è detto che background e storia particolarmente curati significhino automaticamente un gioco migliore: cito ad esempio "Neverwinter Nights 2" che ho trovato di una noia mortale. Quel 'qualcosa' che rende appassionante un gioco non può essere definito a tavolino da un consiglio di amministrazione.
T e R: Cosa dei meccanismi della avventure testuali ritieni sia ancora valido e che anzi andrebbe riproposto per rigenerare un genere, quello delle avventure, che sta attraversano un forte periodo di stanca?
E: Parliamoci chiaro: buona parte del fascino delle avventure testuali stava nell'incredibile esperienza di vedere una macchina capace di 'capire' un umano e rispondergli a tono. Nell'attuale periodo ipertecnologico ciò è perfettamente normale, per cui se le AT vogliono piacere: o introducono qualcosa di assolutamente nuovo, o vanno realizzate con estrema cura dal punto di vista narrativo e dell'interazione col lettore/giocatore.
Il fatto che la capacità di lettura (come pure il piacere della medesima) sia in costante diminuzione non aiuta certamente il successo di un genere basato sulla comunicazione scritta. Mi pare anche che buona parte delle strade ovvie siano già state provate, per cui vedo abbastanza improbabile una rinascita delle AT al di fuori della cerchia degli appassionati, a meno di non stravolgerle completamente con qualche idea fortemente innovativa... e allora probabilmente assisteremmo alla nascita di un nuovo 'genere'.
T e R: Qual è il videogioco che, nella tua esperienza, riassume meglio quello che un videogioco dovrebbe avere ed essere?
E: Mah, non credo di poter indicare Il Mio Videogioco Ideale, anche perché ci sono diversi generi (magari fin troppo codificati, ma questo è un altro discorso). Uso i giochi talvolta in solitario, ma soprattutto per passare il tempo con gli amici, per cui uno dei fattori cui bado è che si possano giocare in due.
Con un amico ex-rallysta e un altro che comunque sa apprezzare la tecnica di guida ci siamo divertiti parecchio con diversi giochi automobilistici split-screen, da "Need for Speed 2" a "Colin McRae Rally"(4, credo). Oggi che la connessione in rete ha sostituito lo split-screen non giochiamo ai loro discendenti perché si resta lì come degli idioti a fissare ciascuno il proprio schermo e ci si annoia.
Con un altro amico abbiamo trovato assai divertente un gioco non esattamente intellettuale come "Dungeon Siege 2" perché era divertente collaborare... con un pizzico di concorrenza nel portarsi via gli oggetti più interessanti.
Talvolta ci si diverte in due anche se ciò non è stato esplicitamente previsto: il tipico caso è quello del platform 3D alla Tomb Raider, dove uno controlla il movimento con la tastiera e l'altro comanda l'attacco col mouse. Ovviamente la perfetta sincronizzazione è impossibile e proprio lì sta il divertimento (se solo la finissero con i boss di fine livello che a mio parere rovinano il piacere di gioco, ma il 'genere' pare ormai immutabile come se fosse stato scolpito nella pietra).
Reciprocamente, capita spesso che il multiplayer previsto dal gioco non funzioni troppo bene: è il caso di molti strategici a turni che sono magari eccellenti in solitario (quello che ricordo con maggior piacere è probabilmente "Heroes of Might and Magic 2") ma nei quali il gioco in multiplayer si traduce nella noia mortale di attendere che l'altro finisca la propria mossa.
Torno alla tua domanda: con tutte le riserve di cui sopra, uno dei giochi più completi che ricordi è il primo Civilization, specie nella versione multiplayer (CivNet): contiene diversi elementi strategici, tattici e organizzativi, perfettamente amalgamati e con un'interfaccia assolutamente fluida (lo stesso non si può dire per i successivi della serie). Ma se guardassi da un altro punto di vista darei probabilmente una risposta diversa, e potremmo stare qui fino all'anno prossimo a elencare 'pietre miliari'.
T e R: L'attuale tendenza al "ripescare" vecchi titoli per riproporli sul mercato ha riportato alla ribalta la lotta fra il popolo dell'abandonware e software house/publisher, spesso disposti a tutto pur di mantenere il controllo di proprietà intellettuali spesso obsolete.
Il tutto potrebbe probabilmente essere risolto da una modifica dei termini di decadimento del copyright, quantomeno in ambito informatico dove dopo 6 mesi un software può già essere considerato "vecchio"; tu "da che parte stai?"
E: Con me sfondi una porta aperta: parlando come autore, sono pienamente d'accordo su una drastica riduzione dei termini di copyright. Magari 6 mesi sono un tantino eccessivi, ma se dopo 5-10 anni dalla fine della commercializzazione attiva un gioco (o in genere un programma) entrasse nel patrimonio collettivo, sarebbe un arricchimento per tutti (non in termini monetari diretti, ovviamente, ma anche il produttore ne ricaverebbe lustro).
Purtroppo, come dicevo prima, le idee sono finite (è difficile chiedere idee originali a una rigida organizzazione commerciale-industriale) e quindi le Case stanno grattando i fondi degli archivi per rifare (con piu' grafica e meno giocabilità) i capolavori del passato, possibilmente facendoli uguali alla XXVII versione di qualche gioco attuale... tanto per non rischiare.
Per non chiudere su una nota di pessimismo, noto che fuori dai grandi circuiti commerciali ci sono giochi assai interessanti, come ad esempio "Battle for Wesnoth" (free) o "PuzzleQuest" (acquistabile online): grafica semplicissima ma pulita e gradevole, niente sequenze animate, movimento a turni... eppure li trovo di gran lunga più divertenti dell'ennesimo platform 3D ormai stravisto e strarivisto.
T e R: Pensando a quelli che sono stati gli esordi, come pensi sia lo stato di salute dell'industria videoludica in Italia attualmente?
E: Temo di non essere in condizioni di esprimere giudizi in materia, perché per un ventennio a partire dal 1985 circa sono stato quasi solo un giocatore. Quindi non ho seguito la storia delle software house italiane e ne conosco ben poco i prodotti; mi pare comunque evidente che il loro numero e dimensione siano da rapportare al peso (ahimé assai limitato) del nostro Paese nell'universo tecnologico.
Ciò non toglie che ci sia gente capace di lavorare bene, specie in rapporto alle risorse disponibili e alle condizioni in cui si trova forzatamente a operare. Se non altro, in un developer di piccole dimensioni il contatto tra chi decide e chi mette in pratica è senz'altro più stretto e ciò offre maggiori potenzialità di innovazione.
T e R: La distribuzione dei videogiochi si è spostata da pochi negozi di nicchia alle grandi catene, anche se in lontananza (e forse neanche troppo) si intravede l'ombra del digital delivery. A tuo parere quest'ultimo è più un bene oppure un male?
Mi spiego: il digital delivery sicuramente permette anche agli sviluppatori più piccoli di arrivare sul mercato e di conseguenza anche sperimentare, ma di contro si perde tutta quella cura del packaging che rendeva la fruizione di un videogioco un momento sacro.
E: Premetto che stai parlando a uno che compra i giochi allegati alle riviste o negli scatoloni 'budget' dei centri commerciali, perché reputo che nessun gioco valga 50 euro (o peggio). Se compro un gioco a prezzo pieno è un caso eccezionale perché qualche amico vuole giocarlo subito a tutti i costi, ma spesso dividiamo... o meglio ancora lo compra lui.
Guarda la coincidenza, ho da poco fatto il mio primo acquisto in digital delivery: "Puzzle Quest" (un amico voleva giocarlo in due, appunto) e non posso che dirmi soddisfatto. Certo, manca la confezione ma io non sono mai stato un feticista, anche perché poi le confezioni oggi sono un pezzo di plastica uguale a quello di tutti gli altri giochi. Più che la confezione, semmai è scomodo non poter installare il gioco su un'altra macchina, magari per regalarlo a qualcuno o per rigiocarlo anni dopo.
T e R: La situazione accademica italiana, riguardo all'industria del videogame e del raccontare, è abbastanza critica. Cosa pensi si potrebbe e dovrebbe fare per uscire da questo impasse?
E: Premesso che sono cresciuto fuori da qualsiasi ambiente accademico, un po' per mia forma mentis e un po' per la dominante l'attitudine eccessivamente teorico-seriosa di quest'ambiente, noto che nei Paesi anglosassoni l'industria del videogioco ha un fatturato di tutto rispetto (sbaglio, o ha da poco superato quello del cinema?).
Da noi invece pare che poco o nulla si muova, se non per modeste iniziative private. Probabilmente è solo uno dei segni di un'Italia da decenni paralizzata da una spaventosa inerzia: la paura del 'nuovo' domina in tutti i campi. La scuola, a tutti i livelli, ne è semplicemente lo specchio.
T e R: Ritieni che il videogioco possa essere considerato una forma d'arte?
E: Senza dubbio. Anche se, naturalmente, c'è l'immagine cui l'artista dedica una vita e c'è la stampa industriale di cartoline illustrate. Non è la tecnologia che definisce l'arte, è il processo di creazione.
T e R: Parlandoci del videogioco in generale, hai sottolineato come la mancanza di innovazione sia uno dei problemi più pressanti dell'industria. Personalmente ritengo che proprio il fatto di essere diventata "industria" abbia generato di fatto questo problema e, come sempre tu affermi, bisogna ricercare nelle produzioni "minori" e indipendenti quella freschezza ormai perduta. Su cosa dovrebbe in concreto puntare il videogioco per distinguersi dagli altri media e non essere di volta in volta il cugino povero del cinema, un libro illustrato etc etc? Mi spiego: nella tua esperienza, cosa hai trovato nel videogioco che lo distingue dagli altri mezzi espressivi?
E: È certamente un fenomeno generale: dalle automobili al software, investire nel marketing costa molto meno che investire nel prodotto e quindi si sceglie quella strada: fare esattamente ciò che fanno i concorrenti garantisce di mantenere un accettabile status quo senza correre rischi.
Più l'azienda è grande, più ragiona in questo modo. I piccoli, purtroppo, sono ostaggi di un sistema distributivo che ragiona per grandi numeri e spesso non hanno la libertà di movimento che consentirebbe loro una vera innovazione. Riguardo alla caratterizzazione del videogioco, è facile: la differenza sta nell'interattività, quindi è questa che bisogna sfruttare. Diversi produttori tendono invece a spostarlo sempre più verso il cinema: i giochi diventano pezzi di film intervallati da pochi clic, il che a mio parere è una strada perdente.
Molto interessante invece, e in parte smentisce quanto dicevo poco fa, la via scelta da Nintendo che vuole portare i giochi al di fuori del solito circolo di appassionati, e per far questo accetta di correre qualche rischio rinunciando ai cliché ormai fossilizzati dei 'generi'. Non si tratta certo di una Casa minore, e ciò rende tale scelta ancora più sorprendente. I risultati, noto con piacere, sembrano dar loro ragione, segno che di spazi aperti da esplorare ce ne sono ancora tanti.
T e R: Un consiglio per chi vuole provare a entrare nel mondo della programmazione e dei videogiochi? Qualcosa che le future generazioni non devono dimenticare!
E: È un lavoro che si può fare solo per passione, non certo se si punta al guadagno. Va anche ricordato che oggi la fase artigianale è finita da un pezzo: quella dei videogiochi è ormai un'industria ben organizzata. Consiglio vivamente agli interessati la lettura delle FAQ di Tom Sloper: le ho lette anch'io per riorientarmi nel settore dopo tanti anni; potrei forse riassumerle con "una buona dose di umilta' non fa male".
Dal punto di vista tecnico, direi di non farsi affascinare dalle tecnologie o dalle mode del momento: al giocatore non importa nulla se avete usato gli ultimi ritrovati nel campo della metaprogrammazione o se scrivete ancora in C 'liscio': quello che conta è che il gioco funzioni bene e sia piacevole da giocare.
T e R: Grazie mille Enrico!
Il sito di OldGamesItalia è attualmente "in letargo". Nuovi contenuti saranno aggiunti con minore regolarità e con possibili lunghe pause tra un articolo e l'altro.
Il forum rimane attivo, ma meno legato al sito, e gli aggiornamenti riguarderanno principalmente le sezioni di IF Italia e della versione italiana del Digital Antiquarian e del CRPG Addict.
Grazie a chi ci è stato vicino nei vent'anni di attività "regolare" di OldGamesItalia, a chi ha collaborato o a chi ci ha soltanto consultati per scoprire il mondo del retrogaming. Speriamo di avere presto nuove energie per riprendere un discorso che non vogliamo davvero interrompere.
Grazie, OGI. Arrivederci!
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Un paio di parole sole:
Arcivescovo di Canterbury (Disarcivescoviscanterburizzato)
Detesto le avventure testuali, preferisco di gran lunga quelle grafiche (sono un retrogamer che ha giocato a classici come Maniac Mansion, Monkey Island, Myst e Riven). Ho giocato ad "avventura nel castello", e solo un aggettivo mi viene in mente per descriverlo: frustrante. Mi spiego: la vita, sopratutto in questi tempi travagliati, è difficile per tutti, chi videogioca quindi lo fa per sentirsi meglio riuscendo vincitore in qualcosa (non vera, ma qualcosa). Ma non si deve sentire frustrato perchè ha commesso un errore in un videogame giusto per provare qualcosa. Non mi sembra giusto che in un adventure il giocatore muoia perchè ha tirato troppo una lancia o quant'altro. Certo, in Maniac Mansion ce n'erano eccome di questi problemi, ma bastava la grafica, il sistema SCUMM e l'umorismo che permeava nel gioco (e non quegli odiosi commenti sarcastici del narratore in avventura nel castello) a renderlo per me godibile. Cito testualmente Enrico Colombini dal suo file "leggimi" dalla versione fee-download da lui personalmente curata: "Dimenticate grafica, full motion video, suono stereofonico, realt…
virtuale... e divertitevi con la fantasia!". Ok, ammetto che è una questione personale che io trovi antipatica questa frase in quanto sono un grande fan dell'avventura grafica "Riven" che aveva tutto quello che Colombini ha elencato, però se devo essere onesto non sono molto d'accordo.
Mamma mia che tristezza!
Ricordo una allegoria bellissima che descriveva come il chip grafico piu' potente dedicato alle avventure testuali fosse gia' presente in tutti noi: L'immaginazione.
Le avventure testuali sono giocabilissime anche adesso. Sarebbe come dire che nel 21' secolo non si potrebbe aprezzare un libro.
Ho iniziato ad appassionarmi alle avventure testuali ben dopo la loro morte commerciale e dopo essermi fatto già scorpacciate delle avventure grafiche del periodo d'oro Lucas+Sierra. Eppure considero quello delle AT un genere interessantissimo ancora oggi, capace di stupirmi con le sue invenzioni e le sue capacità narrative e ludiche. La mancanza di grafica consente di dare enormi libertà al programmatore e al giocatore: giochi come Suspended (dove si comandano sei robot, ognuno con capacità sensoriali diverse), Spider&Web (e il suo gioco a incastro fatto di flashback) o Rematch (una specie di "Ricomincio da capo" dove il giocatore rivive più e più volte lo stesso turno di gioco finché non riesce a ricostruire la giusta combinazione di azioni per salvare sé e i suoi amici) non riuscirebbero mai ad essere convertiti degnamente in forma grafica. Certo, la libertà può portare a ficcarsi in un vicolo cieco, ma non tutte le AT sono ingiuste con il giocatore: come in tutti i generi ci sono i capolavori e le ciofeche cosmiche che frustrano e non divertono.
Sono difficili da giocare al giorno d'oggi? Certo, perché quasi tutte sono in inglese e spesso necessitano del verbo giusto usato al momento giusto. E poi richiedono di disegnare una mappa. Esistono però avventure che si svolgono in poche stanze (se non in una sola) e hanno enigmi molto "leggeri" che servono solo a far procedere la storia, senza essere troppo invasivi o crudeli nei confronti del giocatore/lettore.
Per le soddisfazioni, trovo che riuscire a farsi aiutare dal proprio compagno fantasma a recuperare un certo indizio nella seconda parte di Scapeghost, riuscire a far fallire l'attentato in Border Zone senza far saltare la propria copertura o riuscire a fuggire dalla camera degli interrogatori di Spider&Web (cosa che mi ha provocato un sorriso largo così) possa tranquillamente rientrare nella categoria delle "vittorie" in campo ludico, come lo è superare un livello difficile in Super Mario, o abbattere un colosso in Shadow of the Colossus.
Per me, lo ribadisco, hanno ancora senso tutt'oggi. Poi ognuno è libero di non farsele piacere.
Questo infatti, secondo me, è uno di quei giochi con "Giocabilità Attuale" zero. Mentre se classici come Monkey possono resistere al tempo grazie alla simpatia grafica, umorismo demenziale e altre piccolo chicche, Avventura nel Castello non può proprio riuscirci.
Questo titolo lo devi pensare e aver giocato all'epoca in cui è uscito, devi vederlo come il primo adventure italiano, giocarlo oggi con la mentalità di oggi non può rendertelo piacevole.